“Perseo” di Andrea Valenza

     Mi chiamo Giulio Perseo, detto Perso, ho trentasei anni, quarantacinque battiti al minuto, il mio unico amico è il gatto dei vicini e fra poco più di due giorni, alle 19:45 morirò. Come faccio a saperlo? Mi è già successo. Sono le 10:20, 10:21 in questo momento, mi restano cinquantasette ore e venticinque minuti. Vi racconterò la mia storia.

     Forse avrete capito che sono particolarmente sensibile al tempo, da quando abbiamo iniziato a parlare sono passati trentacinque secondi. Ma di questo diremo più avanti. Il fatto è che ultimamente mi sono capitate così tante cose che l’elenco delle mie turbe psichiche può attendere ancora qualche minuto. A proposito, ora sono passati quarantaquattro secondi e mezzo. 19:45 dicevo, se ieri foste passati poco prima, sul lungo fiume, vicino al ristorante “Il Remo”, mi avreste trovato prono e agonizzante, trafitto da un palo da ormeggio che mi aveva appena spezzato un paio di costole, aprendosi con qualche difficoltà il passaggio tra i tessuti molli del mio addome, forando cistifellea e rene, infilandosi con qualche squasso tra una vertebra e l’altra, per riemergere come un iceberg dalla mia schiena, portando con sé un souvenir di collagene e inaugurando tra i miei organi interni un Aquafan di urina scura come Coca-cola. In quel momento mi avreste visto in preda alle convulsioni, tremante e a un passo dall’ittero, ma abbastanza vivo per accorgermi che cadendo, mentre il suddetto palo mi trapassava, un altro, poco distante, impattava contro il mio polso, fratturandolo probabilmente e costringendomi a lasciare andare un orologio, che precipitava pericolosamente sul frangiflutti a pochi centimetri dalla corrente, da un tuffo che l’avrebbe portato per sempre lontano da me. A mezz’aria, semi sventrato da una trave, riverso come una bandiera ammainata e logora, l’unico pensiero era tentare di raggiungere il mio segnatempo, prima che scivolasse via per sempre. A colpi di reni, o di quel che ne restava, cercavo, allargando la frattura, di scivolare lungo il pennone come una goffa perlina di carne farebbe con un filo di ghisa, per confezionare una macabra collana di un solo pendente. Sono le 10.23, credo che sia arrivato il momento di parlarvi della mia ossessione riguardo al tempo.

     Da bambino mi svegliavo in piena notte, e mi sentivo in trappola, impotente, così angosciato da non riuscire a piangere, quel maledetto, non smetteva un attimo di trascorrere, e lo avrebbe fatto all’infinito. Ciò che mi atterriva, non era l’avvicinarsi della morte, il deterioramento del corpo e dello spirito; tutto il contrario, ciò che mi angosciava fino a togliere il respiro, fino a precipitarmi in una spirale di muta disperazione, era l’ininterrotto scorrere del tempo. L’infinito dipanarsi di una dimensione estranea alle capacità dell’uomo di contenerla. C’è chi trova consolazione, al pensiero di una vita eterna dopo la morte, giorni che si ripetono senza termine, attimi che si moltiplicano senza posa, senza fine. A me, si ghiaccia il sangue nelle vene all’idea di vedere ancora il tempo schiacciarmi, sfuggirmi. In quelle notti, cercavo consolazione tra le braccia di mia madre, ben consapevole che non avrei potuto trovarvi nessun reale conforto. Piangevo, silenziosamente, fino ad addormentarmi esausto. Crescendo il più sfrenato onanismo sostituiva il grembo materno, ma non vi era piacere in quei gesti, nessuna lussuria, nessun erotismo, solo il disperato tentativo di fuggire alla mia ossessione. Ore 02,50, non dormivo, guardavo il soffitto, il ticchettio dell’orologio sopra la testa scandiva il loop della mia oppressione. Tic toc, tic toc.

     11 anni -“ Le S.S. V.V. Sono invitate ad incontrare i docenti, presso la scuola, per comunicazioni inerenti il comportamento anomalo e preoccupante del proprio figlio.” Il Dirigente Scolastico.-
Avevo fermato 16 orologi, in 16 classi, più quattro tra gli spazi comuni e la dirigenza. In qualche modo, ero riuscito a togliere tutte quelle batterie, ci avevo messo 3 giorni, negli intervalli, prima e dopo le lezioni. Sarebbero rimasti così chissà per quanto, mi avrebbero concesso un po’ di pace, se solo quell’inetto del bidello non mi avesse sorpreso penzolare sulla scrivania del preside, ebbro di soddisfazione con le batterie in mano come fossero un Telegatto.
     -“Fammi un disegno, rispondi a queste domande, che cosa vedi? Ti manca papà?” –
     Mi dicevano di non essere nervoso, -“Signora, suo figlio ha bisogno di stare un po’ con lei.”-  
     Mi ricordo la clessidra sulla scrivania della dottoressa, era bella e nervosa, e la sabbia continuava a cadere.

     La mia mano sinistra era una cazzo di cartina geografica. La psoriasi guttata colpisce circa il 10% delle persone affette da questa malattia cronica della pelle. Papule piccole, gonfie e rialzate. Appaiono principalmente sul busto e sugli arti. La comparsa o il riacutizzarsi dei sintomi può coincidere con momenti di forte stress, stati di angoscia o spavento. Le 03,17 non dormivo, fissavo il display del videoregistratore, i cristalli liquidi componevano numeri all’infinito, mi mancava l’aria. 16 anni. Quando fumavo le cose peggioravano, un brutto trip, decisamente un brutto trip. E’ dappertutto, nelle pale del ventilatore, nelle gocce del rubinetto, mi batte nelle orecchie, è nel mio respiro e quando morirò mi sfuggirà ancora all’infinito. A vent’anni finisco in repartino, mix di farmaci ed alcool, stati allucinogeni. L’infermiere fa il turno di notte, mi riempie di Xanax e di parole gentili. A 26 sfondo con un sasso la vetrata dell’orologio sul campanile, poi bevo e rido e rido. Doppia diagnosi, clinica per 27 giorni, poi scappo. Ogni 37 minuti il mio compagno di stanza scorreggiava. A 27 anni avevo già vissuto 14.191.200 minuti di profondissimo sgomento.

     Poi alla soglia dei trenta, quando la gente comune, cambia lavoro, compra case, progetta figli e smette di andare allo stadio mi concessi anche io uno squarcio di normalità e con i proventi di un piccolo quantitativo di metadone, andai a fare shopping.
Intercettai il suo sguardo da dietro una vetrina. Nei suoi occhi il tempo si fermava.
     -“Vuole cambiare piano tariffario?”-
     -“Certo.”- Avrei cambiato anche nome, nazione e orientamento sessuale. I primi mesi non le parlai di me, essere un alcolista psicopatico non era un bel biglietto da visita, eppure sembrava conoscermi da sempre.
Centri commerciali, parchi, pizzeria, cinema.
     “Dormi da me?”
     “Vorrei vedere Vienna.”
     “Passa a prendere le uova”
     “Hai uno spazzolino?” e poi “la Ruota della Fortuna”, Jerry Scotti, pizze fredde, birre calde, il tuo colore preferito, “Che palle Bob Marley!”,“mangia un po’ di verdura”.
     Lei era come me, solo che profumava di shampoo e ammorbidente, io rallentavo il battito, prendevo respiro.
     “Dove sei stata fino ad oggi?”
     “Da queste parti”- mi prese in giro.
     Ridere era diventata un’abitudine.

     Prendevo le medicine, solo quelle che mi diceva il dottore. Prima delle venti bevevo solo caffè. La domenica aprivamo una bottiglia e bevevamo insieme, lentamente, senza furia. Poi facevamo l’amore. Parlavamo, su quel letto che ricordava uno stadio dopo un concerto mentre il gatto dei vicini ci guardava dal ballatoio.
     “Penso di amarti” disse. Dopo un po’ di silenzio terminò “anche tu mi ami.”. Non era una domanda, completava le mie parti mancanti.
     “Vorrei che durasse…”
     “Non dire per sempre. E’ troppo, per sempre non ci appartiene ”
     “Non lo dico.”
     Mi addormentavo, senza sogni, niente tic toc, niente sudori, dormivo, sorridevo.
     “Ho una sorpresa per te” mi disse un giorno “guarda sul tavolo quando torni.”
     Colpito da una luce distratta che entrava dalla finestra come in un film francese, sul tavolo, c’era un orologio. Un brivido mi attraversò la schiena, mi avvicinai circospetto come se improvvisamente potesse verificarsi l’irreparabile. Automaticamente scartai, timoroso, ma avido, le dita si mossero velocemente sulla radice di noce, vi era incisa la locomotiva di un treno. Aprii il cofanetto, allacciato ad un bianco cuscino in velluto, vi era un segnatempo elegante ed essenziale, cinturino in pelle marrone, quadrante nero con lancette oro, niente cronografo, niente datario; solo ore e minuti. Dietro al fondello mostrava un numero di matricola. Al centro, sul fronte, sotto le dodici si leggeva distintamente: “Perseo”. Portava il mio nome. Sembrava un segno. Sentii le gocce di sudore colarmi sulla fronte, ma la smania di allacciarlo al polso ebbe la meglio su di me. Mi attraversò un calore sconosciuto , ero spaventato ed eccitato, provai a toglierlo ma non vi riuscii. Scoprii che la sua storia cominciava ben prima della mia e sarebbe finita molto, molto dopo. L’aveva comprato ad un’asta, era un pezzo storico, non mi disse mai quanto avesse speso. Scoprii che il suo valore era indissolubilmente legato alle vicende ad che lo avevano accompagnato. Per quello non riscuoteva particolare successo fra i collezionisti. A mezza bocca si raccontava di una specie di sortilegio che sembrava pendere su quello specifico modello, l’ultimo in dotazione alle Ferrovie dello Stato, prima che la casa ne interrompesse la produzione. La maison Perseo, e la famiglia Dei Vetti, che ne deteneva il marchio, dovettero le proprie fortune in Italia e in Europa, alla seconda guerra mondiale. Negli anni venti la casa fornì il personale delle ferrovie, senza averne l’esclusiva, poi si affermò il fascismo, l’autarchia, la retorica nazionalista e le marche straniere vennero fatte fuori. Il Perseo 72 divenne simbolo dell’italianità, si allacciò ai polsi dei ferrovieri, delle camice nere, travalicò i confini nazionali fino a diventare l’orologio in dotazione ai reparti speciali dell’esercito tedesco. La cronaca poi si confonde con la leggenda, qualcuno parlò di un patto con il diavolo per sbaragliare la concorrenza, un cartello nazional-satanista, qualcuno disse che quegli orologi erano maledetti ma il suono dei soldi che si accumulavano coprì il rumore delle dicerie e delle campane suonate a morto, finchè l’Ingegner De Vetti non pose fine alla sua vita.

     Conoscendo quei particolari, quelle macabre vicende, misteriosamente sentivo qualcosa allinearsi dentro di me. Vestii quotidianamente il mio segnatempo. Mi piaceva quel contatto, lo accostavo all’orecchio per sentire il rombo del rotore. Immaginavo la mano di coloro che lo avevano indossato prima. Il tempo non mi spaventava più, era diventato il mio modo per intervenire sulla realtà. Il sangue che forse lo aveva sporcato, mi sembrava un’ottima premessa.
Libero, niente incubi, nessuna palpitazione, il congegno dentro di me si regolava perfettamente, ero potente, preciso, non avevo paura.
     Ero felice. Il mio mondo stava tutto nei 44 mm di quel quadrante. Volevo rinnovare quelle sensazioni, comprai nuovi segnatempo, cronografi, orologi che indicavano le fasi lunari, apparecchi radio-controllati, pezzi pregiati e costosissimi, ma non ne indossavo nessuno, era solo un modo per vendicarmi di Lui, per rallentarlo, per incatenarlo. Il tempo non mi sfuggiva più. Respiravo, guardavo il cielo e non avevo più bisogno delle medicine. Le mie giornate erano più lunghe, le notti interminabili. Stavo bene ma mi scontrai spesso con Sara che non aderiva alla mia perfetta tabella di marcia. Non potevo concepirlo. Io ero la mente, lei era il corpo che faticava a starmi dietro.
     Ore 07.00: sveglia
     Ore 13.00: pranzo
     Ore 14.00: piccola sessione di sesso orale.
     Tra le 15.00 e le 20.00 riuscivo ad evadere tutte le incombenze lavorative. La sera era dedicata alla programmazione e realizzazione di tutto quanto riuscissi a pensare. Non fuggivo più da niente, organizzavo, gestivo, conducevo il gioco.
     Decisi di esercitare il grado più alto possibile di controllo sul mio tempo.

     Sapete cosa significa metabolismo? Deriva dal greco e vuol dire cambiamento, era la chiave di tutto. Avrei deciso ogni cosa, nulla si sarebbe ripetuto.
Avrei regolato il mio metabolismo, in base a ciò che desideravo, solo perché potevo. Così invertii i cicli di sonno e veglia, presi a lavorare e vivere di notte. Dimagrivo ad una velocità inspiegabile, Sara era sempre stanca. Diceva di togliere quell’orologio, diceva che mi avesse trasformato. Non capiva.
     Il nostro rapporto si riduceva ai minimi termini, ma avevamo raggiunto livelli di profondità insperati. Tagliavamo tutte le interazioni non significative. Il sesso era diventato intenso, carnale, animalesco. Non facevamo discorsi inutili, non si discorreva di futilità, nessun pettegolezzo, niente economia domestica, parlavamo di vita, di morte, del senso delle cose, ci accoppiavamo come serpenti e discettavamo di Kant, di poesia e di nirvana. Stavamo vivendo in un esperimento mentre i piatti sporchi si accumulavano sul lavello.
Presto però arrivò il rinculo della normalità, eravamo stati per un breve periodo uno sparo che rieccheggiava sulla pianura, ma dopo il fragore non c’era stata nessuna tempesta, solo polvere che si posava. Sara ambiva alla normalità, all’albero di Natale, alle ferie pagate. Mi diceva di calmarmi, io assistevo all’affievolirsi della nostra vitalità. La noia ricominciava a far sfuggire il tempo e io capii che dovevo fare qualcosa per salvarci.
Decisi di fregarlo, di imbrogliarlo nel modo più grandioso e definitivo che potessi. Così nell’ultimo giorno della mia vita riempii la nostra stanza, al terzo piano della via sul lungo fiume di orologi. Ne erano ricoperte le pareti, ogni superficie su cui fosse possibile poggiare un palmo. Volevo che lui vedesse. Davanti alla porta-finestra, pendeva da uno spago il Perseo 72, di fronte al letto dove si trovava Sara. Dopo averle somministrato una massiccia dose di sonnifero, aspettavo che riprendesse i sensi fissando i polsi, e le caviglie che le avevo legato con del filo elettrico. La testa era dolcemente poggiata al cuscino. Ero ormai quasi certo che tutto fosse già successo, ma avevo cose più importanti a cui pensare. Prima mosse impercettibilmente il piede sinistro poi tentò di sollevarsi e aprì gli occhi, nello stesso momento in cui i miei nodi la restituivano al suo giaciglio.
     “Ben svegliata, amore.”     
     Cercò di rispondere, ma un fazzoletto le tappava la bocca.
    “Scusa” ero sinceramente afflitto per quel trattamento.
    “Ci tengo a dirti che tutto quello che farò sarà per il tuo bene.”
     Strattonò e mugolò inutilmente poi strattonò ancora.
    “Non serve amore” la persuasi “non serve.“
    “Lo diresti che la mia più grande paura sia sempre stato il tempo?” cominciai.
     Le accarezzai il volto, le asciugai le lacrime.
    “Adesso io e te lo fotteremo per sempre”
     Mentre parlavo cercava di liberarsi, proseguii con più decisione.
     Eccitato mi inumidii le labbra.
     “Lo so, lo so che sembro matto, ma capirai anche tu.”-

     La stanza era piena di dettagli scaduti delle nostre vite, biglietti dell’autobus, sigarette spente, un telefono scarico. Presi a camminare.
    “Sai di quanti anni è fatta la vita media di un uomo? Settantadue. E’ piuttosto corta non trovi? E sai di questi anni, quanti ne passiamo mediamente a lavorare? Ad alzare pacchi, a dare il resto? Ventitré”
    “Ci hanno fatto degli studi, sai! Ho passato tutta la vita a preoccuparmene.” si agitava cercando di slegare i nodi.
     “Sai quanti anni passiamo davanti ad uno schermo? Trentacinque. Ventisette li trascorriamo dormendo. Quelli che ci riescono almeno, perché molti di noi ,e fra questi mettici pure il sottoscritto, spendono metà di quei fottutissimi anni a guardare il soffitto. Quattro li impegniamo al gabinetto, sei mesi a guardare la pubblicità, diciotto giorni a contemplare il frigo, e solo centoundici giorni della nostra vita li occupiamo facendo l’amore, e pensa a quei poveri stronzi che soffrono di eiaculazione precoce…”
     Ero stanco, tremavo, da quanto avevo smesso di prendere le medicine?
     “C’è una canzone…” fuori si vedeva un gabbiano sorvolare il letto del fiume dabbasso.
     “Quella che dice che il mondo è meraviglioso…quella di Armstrong.” presi il vinile, ricominciò il tic toc nella mia testa “dice che il mondo è meraviglioso, che dobbiamo smettere di perdere tempo e ricordare a noi stessi quanto sia tutto fantastico”- cominciai a far girare il disco.
     “Capisci? E sai quanto dura?” cavai dalla tasca un sacchetto di nylon.
     “Due minuti e 12 secondi. Solo due fugaci minuti a disposizione per capire una così grande verità” glielo misi sulla testa “più o meno il tempo che serve ad una persona per morire soffocata” il materiale plastico aderiva alla pelle ”o quello che serve a capire, che quando si è veramente felici o veramente disperati il tempo rallenta.”
Soffocava e cominciai a cantare di fronte alla finestra.

     I see skies of blue, and clouds of white…

     Tutta la mia vita era servita a fermare il tempo ad arrivare a quel punto. Il primo stadio del soffocamento dura dai trenta ai sessanta secondi, Sara cominciava a diventare cianotica. Avevo capito quale fosse l’unico modo per fermare il tempo, per me e per lei.
Il secondo stadio, tachicardia, riduzione dei riflessi, alterazione sensoriale. Stavo rivivendo la mia morte all’infinito e Sara la sua, Perseo si stava prendendo gioco di me, solo in quel momento capii che dovevo distruggerlo, solo allora fu tutto tutto chiaro. Il terzo stadio del soffocamento prevede la progressiva riduzione della respirazione, la perdita di conoscenza il coma profondo. Poco prima Sara slegò i nodi. Mi sferrò un calcio alla schiena proprio mentre decisi di scaraventare il Perseo fuori dalla finestra, ma fui io a sfondare il vetro, fui io a cadere nel vuoto mentre lo tenevo stretto in pugno. Perchè non lo lasciavo?

     La mia traiettoria si è conclusa di fronte all’ingresso dell’associazione canottieri, sono le 19:45, sto sanguinando infilzato da una trave sul lungo fiume, in una fresca serata estiva. Ai piedi della colonna, a circa trenta centimetri dal mio corpo sospeso, si è formata una pozzanghera rossa nella quale mi rifletto, ne sento l’odore, percepisco la puzza delle mie viscere. Tossisco e sputo un liquido spesso che potrebbe essere bile o un qualche tipo di residuo della mia anima. Ho fatto proprio un bel volo, mi sarebbe piaciuto vedermi. Adesso ricordo tutto. L’orologio, Sara, l’illusione di aver capito e la beffa di essere imprigionato nell’interminabile replay della mia morte, come in un assolo dei Pink Floyd. Mentre sono qui impalato sotto gli occhi di qualche gabbiano, non passa nessuno. Basterebbe uno spacciatore o un runner solitario, gli direi “spacca l’orologio, lasciami morire, una volta per tutte”, e invece niente. Lui è a pochi centimetri da me sulla riva del fiume, se lo afferrassi potrei scagliarlo con forza sul cemento e tutto finirebbe, ne sono convinto Ci provo. Con le ultime forze sposto il busto e la testa all’indietro violentemente, faccio scivolare il baricentro verso il terreno lungo il ferro , come un Fosbury rovesciato o un peperone su uno spiedino. Mi si annebbia la vista, sto per morire. Allungo la mano, dal fondello scorgo la rotazione delle ruote dentate. Ancora un colpo di reni, distendo le dita più che posso quando l’ennesimo colpo di tosse mi scuote e vedo una piccola silhoutte avvicinarsi elegantemente. Prima annusa la pozzanghera poi mi si para davanti con movimenti agili. E’ il gatto dei vicini.
     ”Ciao Vecchio Mio, me lo faresti un favore?”
     Mi guarda con un misto di indifferenza e simpatia, sembra volermi comunicare qualcosa, poi con tutta la naturalezza del mondo miagola, si strofina, fa le fusa.
     Si avvicina all’orologio, facendo ben attenzione a non bagnarsi le zampette, infine come tutti i gatti che vogliono giocare, raggiunge l’oggetto principale della mia attenzione e con un colpo della zampa lo butta giù.
     Non lo distruggerò, non lo fermerò, semplicemente la mia vita finirà.

     Mi chiamo Giulio Perseo, detto Perso, ho trentasei anni, quarantacinque battiti al minuto, il mio unico amico è il gatto dei vicini e fra poco più di due giorni, morirò. Come faccio a saperlo? Mi è già successo.

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