“Storia di un boxeur latino” di Gianni Minà

di Giovanni Di Prizito

«La vita è una milonga, bisogna saperla ballare».

L’ho suonata per un lustro esatto, la batteria. Poi, come certe volte succede, gli amori si perdono, e fiorente maggiorenne lasciai perdere. Tra dubbi di vita, metrature risicate e traslochi ricorrenti non c’entrava mai. I ritmi: mi piacevano quelli del Sud, lenti ma incalzanti, un po’ giusti un po’ sbagliati, ‹‹sempre un poco in ritardo, sempre in levare.››


Ebbene. Leggendo Storia di un boxeur latino di Gianni Minà, Edizioni Minimum Fax, 2020, scritto con la complicità di Fabio Stassi, mi risiedo sullo stesso sgabello di quegli anni, riacchiappo le bacchette e rimetto il piede destro sul pedale della grancassa e quello sinistro al charleston. Mi rimetto a suonare insomma, insieme a tutta la banda.


In ordine sparso. Vinicius de Moraes, Toquinho, Muhammad Ali, Jorge Amado, i Beatles, Fidel Castro, Robert De Niro, Gabriel García Márquez, Eduardo Galeano, Louis Sepúlveda, Joan Manuel Serrat, Dizzy Gillespie, Sergio Leone, Diego Armando Maradona, Rigoberta Menchú, Pietro Mennea, Mina, Adriano Celentano, David Alfaro Siqueiros, Tommie Smith, Massimo Troisi, Monica Vitti, Isabella Rossellini, Federico Fellini, Emil Zátopek, il Subcomandante Marcos, Aleida Guevara March…


A ritmo di samba e bossa nova insieme a loro mi faccio il giro del mondo, ‹‹New York, Tokyo, San Francisco, Philadelphia, Pittsburgh, Montevideo, L’Avana, Salvador de Bahia, Buenos Aires, Rio De Janeiro, Città del Messico, Taiwan, Singapore…››, mentre Gianni Minà, con «l’irresistibile faccia tosta dei timidi che non arretrano di fronte a niente», mi racconta le storie. Sessant’anni di storie che sembrano romanzi, che sembrano inventate. Invece è tutto vero. E forse un giro non ci basta.

Gianni Minà mi racconta la notte del match del secolo a Kinshasa, nel 1974, quando ‹‹George Foreman era arrivato con un cane lupo al guinzaglio […]›› e ‹‹Muhammad Ali invece aveva fatto venire un bonghista dagli Stati Uniti […] per essere accolto con i ritmi della sua gente››. Aggiunge che ‹‹ogni tanto Ali abbracciava l’avversario e incitava la gente a urlare “Ali bomaye. Ali bomaye (Ali uccidilo. Ali uccidilo)”››. ‹‹Quella sera››, continua lui, ‹‹confesso di essermi sentito all’apice della mia carriera. […] Qualsiasi giornalista di qualunque paese avrebbe desiderato essere dentro lo spogliatoio di Ali […] Ma lì dentro, al centro di quella sfolgorante notte africana, c’ero solo io, con la mia mini troupe d’assalto››. C’era sempre lui, il 12 settembre 1979, a Città del Messico, dove Pietro Mennea, ‹‹il ragazzo di Barletta››, riuscì ‹‹con il leggendario tempo di 19’’72›› a battere ‹‹il record del suo idolo Tommie Smith›› sui 200 metri. Mi racconta poi l’intervista ‹‹storica›› del 1987 a L’Avana con Fidel Castro, sedici ore di fila. Subito gli chiese: ‹‹Comandante, per caso vuole conoscere prima le domande, come chiedono di solito i capi di stato?››. ‹‹Minà, ma con la storia che abbiamo lei pensa che noi possiamo aver paura delle parole?›› gli rispose Fidel Castro. E di quella volta a Buenos Aires, nel 1977, in pieno dramma desaparecidos, quando durante una conferenza in mondovisione, facendo calare il gelo nella sala, all’ammiraglio Lacoste disse: ‹‹Sono Gianni Minà, della Rai, siamo qui per un documentario musicale, ma siamo stati informati che ci sono dei problemi, che in questa città, da un po’ di tempo, sparisce la gente. È una notizia attendibile?››. E lui, l’ammiraglio, secco gli rispose: ‹‹Lei è male informato››. ‹‹Gianni, te ne devi andare›› gli aveva detto poi Giangiacomo Foà, portavoce dei giornalisti inviati in Argentina, ‹‹[…] il rischio è molto più serio di quanto pensi, qui la gente sparisce davvero […]››.


Poi mi mostra il ritratto che, nel 1975, sempre a Città del Messico, gli fece David Alfaro Siqueiros. ‹‹Gli occhi li ha fatti in un attimo. Così. Ssssc. Ha imbevuto il pennello e lo ha portato sul foglio. Quando lo ha tolto, erano perfettamente tondi. Mi corresse solo i baffi, tirandoli un po’ in su, ai lati. […]››, e alla fine mi fa vedere una ‹‹[…] fotografia fatta a Roma nel 1982, a Trastevere, davanti al ristorante Checco er Carrettiere […]››. Mi dice che quella fotografia ‹‹è la summa di quello che è stato il suo modo di essere, del piacere che dà l’amicizia e della possibilità di riunire una sera d’estate […] cinque amici avidi di curiosità per ascoltare i racconti del più affascinante tra loro […]››. Io la guardo meglio, e un po’ fatico a crederci. Ma, non posso che ripeterlo un’altra volta, è tutto vero. Gabriel García Márquez, Sergio Leone, Robert De Niro e lui. Al centro, Muhammad Ali, The Greatest. I racconti erano i suoi.


Una dopo l’altra, in un vortice di emotività e nostalgia, Gianni Minà mi racconta le storie. I viaggi. ‹‹Sempre, in qualsiasi posto mi sia trovato, sono partito per un altro. Curiosità o inquietudine, non lo so. È stato il mio modo di lavorare, o di vivere. Abbandonare le cose poco prima che finiscano e correre dove sta per nascere qualcosa di più interessante››. Mentre io ho come l’impressione di leggere un romanzo d’avventura, racconti epici e spettacolari che divoro a ritmo di samba e bossanova.


Inarrestabile, il piede destro batte sul pedale della grancassa, il sinistro serra il charleston e la bacchetta picchia duro sul bordo del rullante. ‹‹Sempre un poco in ritardo, sempre in levare››. Eccolo, finalmente. L’amore è tornato.

Marcovaldo, manovale non qualificato, è un collettivo di persone appassionate di libri, divoratori di storie.   – «Il vento, venendo in città da lontano, le porta doni inconsueti, di cui s’accorgono solo poche anime sensibili, come i raffreddati del fieno, che starnutano per pollini di fiori d’altre terre» (Italo Calvino, Marcovaldo). ↗️ marcovaldo.noblogs.org

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